mercoledì 25 maggio 2011

IL MALATO-OGGETTO

Ma un altro è il punto fondamentale, il più importante di tutti, perché consente di comprendere l’anima nera della medicina contemporanea e la sua filosofia mercantilistica. Scrive l’autrice (pagina 180): «Le medicine che garantivano un migliore ritorno economico erano quelle che non guarivano da nessuna malattia, limitandosi a curarne i sintomi. Il paziente che comprava questi medicinali si trasformava né più né meno in una sicura fonte di reddito, proprio come il fumatore o l’amante del caffè espresso lo erano per la tabaccheria e il bar, contribuendo a garantire anni di considerevoli guadagni alla società produttrice».

Torniamo ad avvertire il lettore: questa è la chiave di volta e la spiegazione di linee guida, farmaci imposti, farmaci e sostanze censurate, ricerche consentite, ricerche proibite, programmi di studio universitari, stage e master di aggiornamento, commissioni ministeriali, comitati etici e di tutta la costellazione di entità che oggi possono imporre e vietare, soffocando, insieme alla civiltà scientifica, l’aspirazione dell’umanità alla salute ed al benessere.

Tanto per intenderci, un farmaco blockbuster, al tempo del conio di questo neologismo, doveva vendere almeno 500 milioni di dollari l’anno. Ora si parte da 1 miliardo di dollari (cifra che, per avere un metro di misura immediato, significa duemila miliardi delle vecchie lire), per puntare a multipli. Quindi, un blockbuster che si rispetti realizza almeno il fatturato della Ferrari auto (€1,9 miliardi Nel 2010).

I fatturati delle sette e più sorelle del farmaco raggiungono livelli inimmaginabili. Ray Moynihan e Alan Cassels, nel loro Farmaci che ammalano, parlano di un fatturato USA di 500 miliardi di dollari (circa 1 milione di miliardi di lire), superiore al PIL di parecchie nazioni, con un crescendo non solo ininterrotto, ma anche logaritmico. Dell’utile netto - senza confronti nei riguardi di qualsiasi attività economica umana - si è già parlato. Ci limitiamo ad osservare che, se da una parte il pur titanico profitto sarebbe doppio senza il costo di capillari ed endemiche corruzioni, dall’altra ungere significa investire, e non soltanto spendere, in quanto:

- assicura una vivificante rete commerciale di corrotti (cattedratici, medici, politici, imbrattacarte mediatici, testimonial, ecc.);
- presidia il sistematico progresso del giro d’affari;
- toglie di mezzo la concorrenza della vera ricerca, della vera medicina, di una efficace farmacopea.

Senza rinunciare volontariamente a qualche miliardo in... sacre unzioni, prima o poi si sarebbe obbligati a rinunciare a cifre maggiori di introiti. Attraverso questa politica, le chiocce del farmaco «... realizzano profitti a velocità più che doppia rispetto al resto del mercato... e... non conoscono crisi».

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nsieme ai blockbuster, veri purosangue, assi ed orgoglio dei farmaco-Arpagoni, trainano il carro migliaia di tozzi e robusti cavalli normanni, che assicurano un profitto unitariamente meno clamoroso, ma da non buttar via. Se i plebei criniti portano a casa meno soldi, si tratta comunque di soldi tanti e sicuri, e che non costano nulla; in secondo luogo non bisogna dimenticare come diversi di questi abbiano dei magnifici effetti collaterali che, diagnosticati per malattie autonome e non da farmaco, provocheranno una domanda di altri farmaci per combattere (o far finta di combattere) mali indotti da loro colleghi. Basti pensare al sinergismo aspirinetta-gastoprotettori. Un’aspirinetta al giorno toglie l’arteria di torno. Basta aver avuto episodi di ipertensione, qualche problema circolatorio, e portarsi almeno una decina di lustri sulle spalle. Il bello (si fa per dire) è che non si tratta di prescrizioni temporanee, ma sine die. La sclerotizzazione arteriosa, che giunge inesorabile col tempo, frutterà tanti esami diagnostici e tante capsuline multicolori, particolarmente abbondanti se, con l’aiuto dell’età avanzata e di inflessibili giornalieri diuretici, si potrà contare su succulenti sintomi di arteriosclerosi e, con un po’ di fortuna, sull’induzione o accelerazione di quel pozzo senza fondo che è l’aureo Alzheimer. Niente di male per le specialità povere ed infeconde, dalle mammelle rinsecchite: c’è sempre tempo per pensionarle e magari sostituirle quando, arruolato qualcuno dei luminari che scalpitano per farsi ungere, assemblato qualche studio da pubblicare su riviste compiacenti, scoperta una nuova malattia, si varerà finalmente un nuovo farmaco-transatlantico dagli oblò sfavillanti, sulla cui prua qualche coniglietta di Play Boy manderà a rompersi una bottiglia di champagne, tra lacrime di Girolamini commossi e gli evviva degli investitori di Borsa
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Al di là di valutazioni negative ed esecrazioni, è la realtà delle cose che svela gli effettivi retroscena e suffraga una visione critica dell'agire delle case farmaceutiche. Tre esempi che non abbisognano di commenti: nel 2001 la guida della Bristol-Myers Squibb fu assunta da Peter Dolan, la cui summa di cultura scientifica era rappresentata dalla proposizione di uno snack alla cioccolata prodotto da General Foods; la Novartis nel 2000 affidò la gestione totale dell'azienda a Thomas Ebeling, già responsabile marketing della Pepsi; Randall Tobias, stratega della Pfitzer, era dirigente nella azienda telefonica AT&T. Quindi, tra snack, pepsi-cola e telefoni, si raggiunge il top della scienza. Bene prenderne nota.
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Uno dei tanti esempi di questa filosofia inqualificabile venne riferito dallo stesso Jones. I dirigenti della Abbott Laboratories (fatturato di circa 31 miliardi di US$) fecero una bella pensata per risolvere un problema di liquidità a breve termine: sfornarono una specialità per la cura della SLA (Sclerosi Laterale Amiotrofica), malattia degenerativa sempre letale e crudele, pur sapendo in partenza che era totalmente inefficace, in quanto «... i medici avrebbero impiegato circa sei mesi per verificare l’inefficacia del farmaco sui pazienti, il che avrebbe consentito alla società di incassare milioni di dollari, nonostante la scarsa diffusione del morbo... fu questo il motivo che spinse Abbott a far pagare il medicinale... circa 10.000 dollari a paziente…». Il prezzo elevato venne giustificato dalla società con l’indisponibilità di tecniche automatizzate; ma quando i tecnici annunciarono che avevano trovato il modo di ridurre ad un quinto il costo di produzione, i dirigenti dissero che «... non c’erano ragioni per abbassare il prezzo e di non preoccuparsi, perché ci sarebbero sempre stati dei vicini caritatevoli, pronti ad organizzare vendite di beneficenza per raccogliere il denaro necessario ai malati di SLA. Le persone convocate a quella riunione erano sotto shock». La conclusione di Jones fu che «... ogni società si impegna a fondo per nascondere ciò che in realtà sta facendo. Queste aziende vivono di truffe legalizzate».
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Invece di continuare con elencazione di casi, basterebbe convenire del perfetto analogismo tra produzione consumistica e produzione di farmaci, affratellati dalla stessa filosofia e dall’identico appetito di guadagno: un appetito insaziabile da Pantagruel che esige soddisfazione totale, rapida e facile. Come le dispense si sono riempite di ogni genere commestibile, le case di ogni genere di apparecchiature elettroniche preferibilmente inutili, così gli armadietti dei farmaci straripano di pillole, capsule, supposte, fiale, fialette, sciroppi. E’ il consumismo della salute, tutt’altro che disinteressato, come quello deputato ad altri aspetti dell’esistenza, ma con ben diverso impatto sulla nostra vita. E le analogie non si fermano qui. Basti pensare al sofisticato tecnicismo costruttivo finalizzato a minare la durata degli oggetti, al quale si affianca l’esasperante pubblicità diretta a far apparire superato ed anacronistico quanto acquistato in tempi non recentissimi. Il farmaco, fabbricato prevalentemente per incidere (nel migliore dei casi) sulla malattia senza risolverla e che, anche se valido, viene sostituito da altri di nuova generazione che nuova magari non è, segue la stessa traccia. Dal che, non solo facile, ma obbligata, emerge la concezione praticata dalla società contemporanea: il malato-oggetto, il paziente-cliente, l’essere umano fattore di reddito.


adolfo di bella
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