sabato 5 maggio 2012

PAGARE PAGARE PAGARE


Non poteva essere diversamente: ieri, dopo l’irruzione di Luigi Martinelli in quel di Romano, tutti i commentatori all’unisono hanno sostenuto che la situazione fiscale in Italia è da “emergenza nazionale”. Un secondo dopo, però, han preso le distanze dal ribelle di cui sopra, la cui scelta di entrare con le armi in un ufficio di Equitalia è stata considerata “scellerata”, “indifendibile”, “delinquenziale”, “inaccettabile”, “da condannare” a seconda della declinazione politica di chi pronunciava quelle parole.
Chi scrive invece, senza se e senza ma, sta dalla parte del Martinelli. Volete sapere perché? Per due motivi:
1- Quest’uomo – che per inciso non ha torto un capello a nessuno – ha compiuto un atto dimostrativo, che ha riscosso (basta girovagare su Facebook) il plauso di una moltitudine di persone. Il piccolo imprenditore bergamasco ha risvegliato le coscienze di una “maggioranza fin troppo silenziosa” di oppressi dal fisco criminale italiano che continuano a mugugnare e ad imprecare, ma che non hanno il coraggio di dire in faccia ai gabellieri che avanti di questo passo non si può andare.
2- Come dissi a Bruno Tinti durante una trasmissione su RaiTre, la storia dell’umanità è una storia di rivolte fiscali, che solitamente si manifestano in tre fasi: cominciano con la mal sopportazione del comportamento dei gabellieri, qualche critica e un po’ di evasione (che per dirla con Pierre Lemieux è una forma di rivolta pacifica); continuano con un po’ di arrabbiatura, con la parte più produttiva della popolazione che emigra e con qualcuno che si suicida; finisce con la ribellione del popolo, che comincia a prendere a legnate i tiranni ed i suoi servitori. Ebbene, Martinelli rappresenta la cerniera fra la seconda e la terza fase.
Chi ha letto il libro di Charles Adams, intitolato “For Good and Evil”, sa bene che storicamente grandi e potenti Stati o, addirittura, civiltà si sono spente per la smania tassatrice degli uomini al governo. Smania tassatrice che ha comportato sempre le stesse cose: ribellione e inevitabile fuga di persone e di capitali in luoghi più accoglienti. E’ accaduto nell’antico Egitto, nell’Antico Israele, nell’Impero romano, in quello spagnolo ed olandese, ovviamente in quello inglese, di cui la rivoluzione americana rappresenta ancora oggi la rivolta fiscale per antonomasia. Furono le imposte a sconfiggere Napoleone e i di lui scherani vennero cacciati dai contadini al grido di “A morte i gabellieri”.
In “Per chi suona la Toscana” di Giorgio Batini, “un caso davvero particolare di rivolta fu quello dei monaci benedettini della Badia Fiorentina: nel 1307. Anziché suonare i loro bronzi per le ore canoniche (la città, come ricordava Dante, traeva ‘e terza e nona’ proprio dal campanile della Badia), li suonarono a martello contro le tasse imposte dal Comune, quasi un invito per i cittadini alla rivolta fiscale. Ma il Comune reagì pesantemente”. Luigi XIV grazie alle tasse sul caffé riuscì addirittura a finanziare alcune imprese militari. I cittadini, tuttavia, protestavano contro le tasse inique e, nel 1732, proprio ispirandosi alle proteste popolari contro le tasse sulla bevanda, J. S. Bach scrisse la Cantata del caffé.
Sergio Ricossa, un liberale diventato libertario, non ha mai avuto timori nel definire “la libertà come la ribellione allo Stato predone”. Piero Ostellino, nel suo libro “lo Stato canaglia”, ha vergato parole tranchant contro il notabilato politico italico: “Il mio non è un auspicio, né tanto meno un incoraggiamento, ma, nella nostra situazione, il solo modo di sconfiggere ‘la Casta’ a me pare non rimanga che la rivolta fiscale”.
In un libro di Luigi Fressoia intitolato “Elogio dell’evasione fiscale” sulla copertina si legge: “La rivolta fiscale non è un’espressione del populismo, bensì di una coscienza di classe che va maturando. E non è nata di recente, né come cieca reazione “antipolitica” alla corruzione e all’inefficienza di una generica classe politica, bensì va più in profondo, arrivando a chiedersi dell’intera organizzazione dello Stato, degli enti pubblici. In ciò essa è autenticamente progressista”.
Aldo Canovari, editore e giudice tributario per ben 24 anni, ha scritto: “Pretendere, in un assetto di rapina legalizzata come quello italiano, che i cittadini assolvano correttamente all’obbligo tributario, e scandalizzarsi se non lo fanno, è ipocrisia o idiozia. E, poiché è stata valicata ogni ragionevole soglia di sopportazione, potrà innescarsi in tempi brevi una vera e propria rivolta”.
Gianfranco Miglio, colui che ha portato in Italia il Thoreau della “Disobbedienza civile”, ai tempi in cui era l’ideologo della Lega Nord, disse: “Noi siamo un movimento rivoluzionario pacifico, ma adopereremo dei mezzi politici distruttivi, come uno sciopero fiscale mirato che metterà lo Stato nemico con le terga a terra. Questa è la guerra politica che prepariamo. Noi siamo fondamentalmente pacifici ma… incazzati”. Purtroppo, non sapeva che Bossi l’avrebbe tradito. Il professore comasco, nel redigere il “Manuale di resistenza fiscale” nel 1996, sostenne: “Certo i detentori del potere, di ogni tempo e di ogni luogo, hanno sempre considerato gli averi dei sudditi (e poi dei cittadini) come pienamente disponibili, collocando i prelievi di ricchezza di gran lunga in prima fila tra gli atti di governo. […] I popoli liberi e meglio ordinati sono quelli che si permettono ogni tanto di ribellarsi”. Solo la L.I.F.E. ebbe il coraggio di provarci.
Quando al Sud, un paio di mesi fa, si mossero quelli dei forconi, la loro ragione sociale è stata la rivolta fiscale. In Irlanda, recentemente, il governo ha deciso di introdurre una specie di Imu (molto meno esosa della nostra). Ebbene su 1.700.000 potenziali contribuenti, 800.000 non l’hanno pagata e sono scesi per le strade a protestare.
Lungi dall’essere moralmente indifendibile, la rivolta fiscale è quindi al centro della tradizione civile e politica del liberalismo classico, e rappresenta un formidabile strumento nelle mani di quanti vogliano tornare in possesso di quella libertà che il ceto politico ha loro sottratto.
Luigi Martinelli, piaccia o meno agli statalisti ed ai parassiti che vivono dei soldi altrui, è solo l’ultimo esempio di un fenomeno che ha caratterizzato la storia della libertà. L’azione del piccolo imprenditore orobico è l’incarnazione ultima e nostrana delle parole lasciateci in eredità da John Locke qualche secolo fa: “Esula dai doveri dell’uomo sottomettersi ai governanti sino al punto da accordar loro licenza di distruggerlo, poiché i cittadini hanno il sacrosanto diritto di ‘appellarsi al cielo’ ogni qualvolta non c’è altro rimedio contro i soprusi del governo”. Infine, ma pur sempre con Locke, “Laddove la potestà tributaria è usata come strumento per depredare alcuni cittadini a favore di altri ed ha come suo unico limite quello della voracità delle corporazioni sul cui consenso il governo fonda il suo potere, lì la democrazia si riduce a farsa della democrazia e lì esploderà la rivolta”.
Martinelli, senza nemmeno sapere chi sia Locke, ha compreso che la democrazia italiana è una farsa, anzi… una tragedia!

fonte http://www.lindipendenza.com/martinelli-rivolta-fiscale/

Ho fatto un bel casino eh… Ma qualcosa, pota, bisognava fare… È andata così, ho visto la cartelletta che mi hanno mandato a casa, con tutti quei fogli lì, quelle tasse ingiuste. Pagare pagare pagare, e so´ ‘ndacc fò de co´… («sono andato fuori di testa»)”. Luigi Martinelli dal carcere di Bergamo.

Un uomo coraggioso un uomo con le palle,in Italia ci sarebbe bisogno di molti sig, Martinelli
che si sono rotti di pagare pagare pagare per mantenere una banda di parassiti e ladri.
Lo Stato Italiano è il principe dei ladri ma è il contrario di Robin Hood cioe' ruba ai poveri per dare ai ricchi, solo una Sana Ribellione sociale puo' liberarci da questa dittatura finanziaria

Ivano Antar Raja