giovedì 2 aprile 2015

IL CIRCO DELLA FARFALLA





LO STUPENDO CORTOMETRAGGIO CON EDUARDO VERASTEGUI
La vera povertà è la perdita della capacità di meravigliarsi e di sondare in profondità la vita e l'umanità, fino a trovarne il senso trascendente, quale che ne sia la condizione, mentale, fisica, sociale

Will è interpretato da Nick Vujicic, nato a Melbourne nel 1982, accolto, cresciuto ed educato da genitori serbi proprio così, affetto dalla rarissima tetramelia, privo di tutti e quattro gli arti.
Un uomo che ha imparato a utilizzare i suoi «piedi» per scrivere, usare il computer, radersi, versarsi un bicchiere d'acqua. Si è laureato in economia, gira il mondo come conferenziere «motivazionale», in ogni ambito, compresi quelli aziendali. È direttore dell'organizzazione Life without limbs («Vita senza arti») e ha scritto Senza braccia, senza gambe, e senza preoccupazioni. «Ho imparato ad accontentarmi dello stato in cui mi trovo» – dice –, testimone vivente di come non esistano vite senza valore, indegne di essere vissute, se non nella mente di chi le vive o di chi non accetta che siano vissute, oltre che dei pianificatori di una società «razionale».


Nel «corto», ambientato ai tempi della grande depressione americana, è un fenomeno da baraccone.
È esposto – letteralmente: al dileggio e alla perfidia degli spettatori, per il loro divertimento –, con altri monstra, come «L'uomo – se così si può dire – senza arti, cui anche Dio ha voltato le spalle», in un Luna park. Ma proprio nel luogo dei suoi tormenti, in cui la dignità della persona è annichilita, dove ogni giorno si convince di essere un non-uomo, un progetto non riuscito, gli accade l'incontro della vita: il direttore di un circo. Quando questi lo avvicina, convinto che anche lui voglia deriderlo, gli sputa. L'uomo capisce che Will non poteva capire le sue intenzioni: si pulisce il viso e si scusa. Ma nel suo atteggiamento c'è qualcosa di più. Come nel volto e negli occhi di Will. Che apprende da un suo compagno a chi aveva sputato. C'è un lampo nel suo sguardo, e lo ritroviamo nascosto nel cassone di uno dei furgoni della compagnia.
Il direttore lo accoglie nel circo, come aveva fatto con altri reietti della società. Ma senza pietismi, senza nessuna indulgenza per il suo risentimento. Con modi scabri e persino bruschi, infatti, cerca di abbattere non le barriere architettoniche – ossessione che fa da falso lavacro alla cattiva coscienza del nostro tempo –, ma quelle psicologiche e naturali che separano Will non tanto dal mondo, ma da sé stesso e dalle sue capacità. Gli fa intravedere la bellezza del creato e della vita: il senso. In ogni vita, anche nella sua, che lui crede fallita in partenza. Anzi, il suo stato ha addirittura un vantaggio:

  «più dura è la lotta, più grandioso il trionfo!».

E così Will, in circostanze drammatiche, scopre che può persino nuotare, e invece di chiedere di continuare a fare il monstrum – «nel nostro circo queste cose non le facciamo» – impara quel numero, che tra l'esaltazione e l'allegria del pubblico gli restituisce il sorriso, la gioia di vivere. Che trasmette ad un piccolo storpio, convincendolo che nulla è davvero impossibile a chi colga la meraviglia della vita, «tutto ciò che serve all'uomo».
A nessuno Dio ha mai davvero «voltato le spalle», a nessuno può essere tolta la sua umanità. La speranza non è vana.
Il bruco è diventato la farfalla cui allude il nome del circo.

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